Il numero del 28 ottobre 2013 della rivista Time dedica, a firma di Bryan Walsh, un lungo e interessante articolo ("Power Surge") alla rivoluzione energetica in atto negli Stati Uniti. Il fenomeno, in corso da circa un triennio, ha un nome e cognome ben chiaro: Shale Gas (Gas di Scisto). La presenza e abbondanza di shale gas è nota da tempo (non solo negli Stati Uniti); la sua localizzazione nella roccia sedimentaria argillosa, praticamente impermeabile (fonte: “Descrizione del Gas di Scisto” da Geology.com), situata a profondità tra i 2000 e i 4000 metri (fonte: sito Greenstyle.it), lo ha, tuttavia, reso a lungo non estraibile e economicamente non conveniente. Tutto ciò sino all’affermazione di due tecnologie, entrambe invenzioni statunitensi: la combinazione di perforazione orizzontale e fratturazione idraulica.

La tecnica di fratturazione idraulica, sebbene già sperimentata nel 1950 (v. l’articolo “Lessons from the shale revolution” nel numero di ottobre 2013 di Mechanical Engineering), secondo Time è stata resa conveniente a partire dal 1998 quando l’imprenditore petrolifero George Mitchell ebbe l’idea di utilizzare acqua al posto dei costosi fluidi di trivellazione sino allora adottati. Il gas immagazzinato nello shale è designato come gas non convenzionale, ma è in tutto e per tutto un gas metano. Grazie alla combinazione di trivellazione orizzontale e di fratturazione idraulica, la produzione di gas negli Stati Uniti è aumentata del 30% nel giro di sei anni, dal 2006 al 2012 (fonte Time), arrivando a superare la soglia dei 708 miliardi di metri cubo per anno. Il prezzo del gas naturale è, conseguentemente, diminuito di più del 50%, consentendo ai produttori di sostituire i vecchi impianti a carbone con impianti a gas e, così, soddisfare le nuove restrittive regole sull’inquinamento emesse dall’Agenzia di Protezione Ambientale Statunitense (EPA). L’energia prodotta da carbone era nel 2006 circa il 50% del totale; mentre nel 2012 essa ha rappresentato il 37%. L’ampia disponibilità di bacini estrattivi ha trasformato gli Stati Uniti in uno dei maggiori produttori mondiali di gas. Si prevede che entro l’anno gli Stati Uniti sorpassino  la Russia come maggiore produttore mondiale di olio e gas naturale e che, entro un decennio, il Nord America nel suo insieme sarà energeticamente autosufficiente, annullando la dipendenza dal Medio Oriente (fonte Time). Questa tendenza acquista particolare rilevanza se confrontata con le stime che il Dipartimento dell’Energia Statunitense (DOE) ha elaborato nel 2004. Secondo esse, gli Stati Uniti avrebbero importato 71 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto (LNG) entro il 2011, con una crescita sino a 142 miliardi di metri cubi entro il 2025. Proprio per far fronte a questa esigenza, sulla costa orientale fu avviata in quegli anni la costruzione di parecchi terminali per scaricare l’LNG proveniente dal Medio Oriente. Sul versante dell’olio le previsioni non erano meno fosche. Nel 2005 gli Stati Uniti importavano 12,5 milioni di barili al giorno, con una previsione di crescita sino a 15 milioni di barili entro il 2025. Oggi i terminali di LNG sono già stati riconvertiti o sono in corso di riconversione non a scaricare, bensì a caricare navi gasiere destinate all’esportazione del gas in eccesso prodotto in USA e venduto a prezzi inferiori al costo che paesi come la Cina dovrebbero sopportare per produrlo. Enormi bacini di shale gas sono stati trovati in molti punti del pianeta, Europa inclusa (fonte: petrolioegas.it). Un freno all’entusiasmo è, tuttavia, dato dalle forti perplessità sull’impatto ambientale della fratturazione idraulica (fonte: Greenstyle) e delle tecniche di estrazione che liberano notevoli quantità di anidride carbonica. Secondo quanto riportato dal sito Greenstyle, sembra che l’EPA abbia individuato nel fracking (fratturazione idraulica) la seconda fonte di emissione di CO2 negli USA durante il 2011. Negli Stati Uniti, come riportato da Time, altri puntano il dito anche sulla possibile contaminazione delle falde acquifere (associazione CREDO).

Alla rivoluzione dello shale gas e alle lezioni che essa fornisce, dedica un articolo (Lessons from the shale revolution) anche il numero 10/135 (ottobre 2013) del mensile Mechanical Engineering edito da ASME. L’autore, Michael E. Webber, si sofferma sui fattori che hanno consentito questa rivoluzione, in particolare il rapporto sinergico tra politica, iniziativa privata e sviluppo tecnologico. Il potere politico ha creato le condizioni perché il processo potesse decollare. L’iniziativa privata al momento buono ha saputo investire in ciò che sino a poco prima era considerato non conveniente. La tecnologia ha saputo integrare processi noti da tempo - come la perforazione orizzontale, dimostrata sin dal 1930, o la fratturazione idraulica usata già nel 1950 - con nuovi additivi che li hanno resi più efficienti e, dunque, competitivi. Con questo approccio integrato, quella che appariva come un’irreversibile condizione di decadenza, verso una sempre più accentuata dipendenza energetica dall’estero, è stata completamente rovesciata. La lezione è dunque molto semplice: quando questi tre attori (politica, impresa e ricerca) si muovono insieme, in modo coordinato, verso un comune obiettivo, la collettività ne trae vantaggio. E allora – si domanda l’autore - perché non applicare questo schema di lavoro ad altri aspetti critici per la società, quali salute, cambiamenti climatici, politica economica?

E in Italia? Fare sistema da noi è un sogno. Sarebbe già tanto che politica e impresa riuscissero a individuare degli obiettivi per i prossimi anni. In assenza di qualsivoglia progetto, è difficile immaginare i vari soggetti economici muoversi in modo coordinato; anche perché si troverebbe sempre qualcuno che gridando più forte riesca a bloccare tutto.

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